Dopo aver analizzato animali come beccaccia e selvaggina stanziale identificando punti comuni e diversità, qualche differenza nei calibri da caccia e strozzature la notiamo se osserviamo selvatici come l’anatra e l’oca.
Pensando con il Prof. Simone Bertini, uno dei massimi esperti di caccia, alla selvaggina migratoria acquatica, innanzitutto la prima considerazione da fare riguarda le munizioni, che stanno uniformandosi verso l’utilizzo di materiali alternativi al piombo nelle zone umide; è necessario quindi disporre non soltanto delle munizioni idonee, ma anche di fucili con canne testate steel shot in grado di spararle. Nessun problema per il calibro 12, dove la disponibilità di materiali risulta eccellente e direi anche per il calibro 20. Più impegnativo il ricorso al calibro 28 e al calibro .410, sia per l’oggettiva disponibilità di munizioni, sia per uno sparo che diventa impegnativo quando si avvicinano i limiti oggettivi dati dal calibro e dalla distanza. Attenzione; non vi sono grandissime differenze (qualcuna c’è, è inutile che vi dicano che potete sparare con qualsiasi calibro alle stesse distanze ed ottenere gli stessi risultati) fra un calibro e l’altro in termini di portata, bensì di precisione al tiro e di numero di pallini potenzialmente letali che possono attingere il selvatico. Un selvatico robusto come l’anatra o - peggio ancora – l’oca, abbisogna di essere attinto con pallini di numerazione grande e in un calibro piccolo di pallini di grande numerazione ve ne sono pochi. Le rosate, visto che si spara con strozzature accentuate (almeno con il piombo, con l’avvento dell’acciaio o di materiali che seguono la stessa normativa quale il rame quasi sempre non si varca il limite delle tre stelle come strozzatura), appaiono concentrate e ristrette almeno sino ad una certa distanza. Il rischio è quello di ferire il selvatico con pallini periferici, errabondi e/o deformati, sì da rendere difficile il recupero, una volta terminata l’azione di caccia. Ancora una volta vogliamo soffermare la vostra attenzione su un aspetto: è possibile cacciare ad esempio le oche con un calibro .410? Certo, è la risposta, basta capire di che caccia stiamo parlando. Se le oche siamo in grado di attirarle all’interno del “gioco” (gli stampi e i richiami disposti sul luogo dell’appostamento), esse si troveranno al momento topico del tiro ad una distanza tale (vicina) che probabilmente non avranno scampo; ma se pensiamo di abbatterle sparando regolarmente a distanze che veleggiano sui 40-50 metri di altezza, magari con tiri in diagonale e in allontanamento, beh …. se togliamo la fortuna ed il colpo accidentale, direi che è meglio lasciar perdere. E non mi voglio neppure soffermare sul fatto che le cariche pesanti (magnum) delle cartucce di ogni singolo calibro risultano – inevitabilmente – più lente di quelle standard, oltre ad una certa piacevolezza dello sparo che viene ad essere fortemente ridotta con cariche elevate (rinculo, sensazione di disagio). Oltre tutto, un calibro più grande e pesante (non è detto che vadano di pari passo l’aumento del calibro e del peso) rende il fucile più stabile al tiro e soggetto ad un minor rinculo, per via di leggi fisiche che nessuno è mai riuscito a sovvertire e che mai nessuno sovvertirà; quindi, in ultima analisi, il fucile risulta più godibile allo sparo.
Volete un altro esempio? Prendiamo la nobile alpina, selvaggina che – purtroppo – non è alla portata di tutti i cacciatori, vuoi per le limitazioni territoriali e di calendario, vuoi per una necessaria prestanza fisica onde insidiarla in luoghi di montagna. Qui il compromesso è d’obbligo; meglio un calibro più grande che mi dia “più sicurezza” e “garanzie” al tiro, oppure un calibro più piccolo, facilmente trasportabile sino al momento topico (ammesso e non concesso che si verifichi l’evento) dell’incontro venatorio? Personalmente consigliamo un calibro 12 leggero, con canne di media lunghezza, oppure un calibro 16 o 20 di analoghe qualità; le occasioni di tiro sono talmente poche e sovente così complicate (selvatici che si lanciano in discesa dai fianchi di un monte, sparo in condizioni di equilibrio precario, sovente ai limiti della portata utile) che qualche pallino in più e una potenziale maggior gittata potrebbero far comodo (strozzatura piuttosto stretta, per lo meno di seconda canna), anche per non mangiarsi le mani ad azione terminata.
Ancora una volta, però, niente vieta di ricorrere ad un piccolo calibro, se vi sentite di padroneggiarlo; attenzione ai ferimenti che, sulla nobile alpina, possono voler dire perdita del selvatico con le conseguenze immaginabili. Se state rileggendo le frasi appena sopra, potreste chiedervi se non non ci stiamo contraddicendo; un fucile leggero scalcia di più (specialmente aumentando le grammature di piombo). Vero, tutto vero; è altrettanto vero che di cartucce in questa forma di caccia ne sparerete talmente poche che il discomfort allo sparo sarà ben presto dimenticato.
Il fatto di prendere dimestichezza e consapevolezza con il calibro, permette di affinare quella precisione al tiro che si fa vieppiù necessaria scendendo di dimensioni; rosate più strette e con un minor numero complessivo di pallini, necessitano comunque di un certo “manico”. Ma, ed è il rovescio della medaglia, stavolta ampiamente positivo, con la pratica acquistiamo consapevolezza e abilità, accrescendo nel contempo quell’autostima che spesso e volentieri è alla base dei nostri successi/insuccessi.
Guai ad abbattersi repentinamente, magari dopo le prime fucilate esplose proprio nei confronti di quei selvatici difficili che abbiamo affrontato in precedenza o che andremo a presentare nel prossimo articolo dedicato alla lepre e al colombaccio.